Ho conosciuto Bettini tanti tanti anni fa che pare ormai preistoria, a Siena, (era ministro ancora Berlinguer) durante un meeting premonitore a difesa del greco e del latino. La sera gli confessai una privata malinconia: avevo dovuto scegliere tra carriera universitaria o fare il cialtrone sul palco. Mi rispose che anche a lui gli sarebbe piaciuto cantare. Io poi alla cattedra ci arrivai veramente. Meno male che lui non si è messo mai a cantare. Non ci siamo rivisti quasi più, ma io ho continuato a leggerlo sentendolo sempre, volta a volta come un compagno di trincea a cui passi il tascapane e ti rilegge per la decima volta l’ultima lettera del suo amore mentre fioccano proiettili da tutte le parti e tu non ti arrendi, non ti arrendi mai.
E così A che servono i Greci e i Romani? non ha niente a che spartire con accorate e retoriche nostalgie di un mondo che va a perdersi, non risulta una snobistica «defensio» di parole e pietre, perché il soldato è uscito dalla trincea e va all’attacco, con chi lo segue, senza compromessi, senza paure.
Il senso della vita, dell’uomo, il senso vero è già nella prima pagina del saggio: a una commissione che discuteva su una richiesta di finanziamento, uno scienziato americano presenta il suo progetto. Viene interrotto da John Pastore, temuto repubblicano, che gli domanda «Professore, il suo progetto serve a difendere la nostra patria?». «No» - E’ la risposta - «ma serve a rendere la nostra patria più degna di essere difesa».
L’anima del libro di Bettini sta in questo abisso – limite tra vivere e dignità di vivere; e l’abisso in sé segnato da due verbi: servire e giovare, dove nella meccanica del primo spadroneggia il profitto tout-court, nel secondo la grandezza dell’inutile. Bettini rimarca che la mentalità culturale in Italia è malata subliminalmente di paneconomia, e che il valore di qualsiasi bene è ragguagliato alla sua potenzialità economica: volenti o nolenti noi definiamo i nostri beni culturali con termini come «petrolio», «giacimenti», «prodotti», “offerte”, “spendibilità”, quasi che tutto fosse da consumare, da guadagnarci su. Questo circuito va interrotto e subito.
Quando parliamo di classicità non possiamo usare il passato. Il mondo greco come quello romano sono in noi come ultimo anello di una catena che non può avere punti di rottura perchè non ci sarebbe Dante senza Virgilio, né Shakespeare senza Eschilo o Seneca e tantomeno Einstein senza Pitagora: noi ci portiamo addosso la classicità come una seconda cultura sovrapposta e mai soppiantata da quella cristiano–popolare (sintomatica la preghiera di Dante ad Apollo nel Paradiso), noi navighiamo in una «tradizione» (trado = consegno) che impregna il nostro quotidiano, dove i monumenti (moneo = faccio ricordare) non sono inerzia petrale, dove i musei non sono «collecta» di dimenticanze, ma punte di iceberg immenso, che non si scioglie mai.
Bettini ha una visione diacronica della cultura e della lingua (l’albero genealogico dello Schleicher) ma altresì sincronica alla De Saussure: il tempo fermo del mito ha espansione verticale e orizzontale: evitarlo o sbeffeggiarlo significa costruire sul niente. L’Italia (attraverso i greci) ha numerato e sistemato il mondo, definito il pensiero una volta per tutte. Giappone, Cina, India insegnano ai propri figli la propria antichità come monito e grandezza. Perché senza i classici la vita si ridurebbe ad un tautologico «servire» e basta; faccio ciò che mi serve, sono servo di quel che faccio: verrebbe a mancare «l’oltre» che poi in realtà abbiamo dentro e che poi spiega l’«Axion» delle scelte.
Bene – si chiede Bettini - «ma come insegnarli questo greco, questo latino? Perché il punto è questo, non si può continuare con iniezioni di lingua, sintassi e passi oscuri, dividere la letteratura in generi (!), mischiare Cicerone con Plauto». Già ai miei tempi ricordo il commento della buonanima del Prof. Ferrario, che davanti all’indifferenza sbuffante dell’aula, se ne usciva con un maccheronico «et dormunt multi».
Ce ne sono eccome di strade, ce ne sono eccome di variazioni, e direi che la parte più «viva» del saggio sta proprio nell’enumerazione delle «aphormài», cioè risorse, dagli allestimenti teatrali, alle ricerche sul latino nel cinema, nelle letterature, (reception studies), alle riprese moderne di modelli classici (L’italiana in Algeri tratta dall’Ifigenia di Euripide) e via dicendo.
Ma la cosa di gran lunga più importante, rileva Bettini, è che gli studenti si formino un sistema, una «Gestalt» del mondo antico in toto, senza spezzettarlo in particolari disuniti e frammentari studiando l’ipotetica di terzo tipo come una cosa a sé, Silla, Augusto, Costantino come capitati per caso, la metrica come un di più fuori dal mondo, quando il ritmo invece è essenziale al «mélos» da sempre, e il giambo altro non è che rock, l’esametro valzer (altra aphormé). Sono il tempo, la scena, le temperie che si devono far respirare ai ragazzi, perché questo, non altro è cultura. Splendido, a proposito, l’esempio di Niels Bohr che in visita al castello di Kronborg traduce in verità sensibili e affettive la «fiction» di Shakespeare, e nella sua mente, nel suo cuore Amleto ed Ofelia lasciano spazio a quella corte che ora è un intero mondo.
Vedere la vita dove altri passano oltre sbadigliando, sentire uomini e cose parenti nell’immortalità della storia, respirare in «toto» la bellezza di una vicenda che è stata e sarà. Ecco la lezione di Bettini.
ROBERTO VECCHIONI
CANTAUTORE, SCRITTORE, PROFESSORE DI LATINO E GRECO
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