Siamo tutti “greci”: dentro le parole e non solo
Con il suo ultimo saggio, dal titolo “Le parole della nostra storia – Perché il greco ci riguarda” (Marsilio), Giorgio Ieranò ci conduce alle origini del nostro linguaggio per mostrarci il luogo da cui siamo partiti ma soprattutto quanto complesso, lungo e ricco è stato il viaggio che abbiamo finora compiuto
di Serena Uccello
La più citata è filosofia ma anche con politica non va male. Quando si tratta di sminuzzare il nostro linguaggio il tributo alla lingua greca è ricorrente. É lì in Grecia che, a noi figli della grande famiglia indo-europea, ci conduce l'origine del nostro linguaggio. Un tributo doppio, perché al greco facciamo riferimento per quelle parole che ci portiamo dietro dal paganesimo e al greco facciamo riferimento per le parole cruciali della tradizioni cristiana: «a partire», ci fa riflettere Giorgio Ieranò nel saggio Le parole della nostra storia – Perché il greco ci riguarda (Marsilio), «da parole come “Vangelo” o come “Chiesa”. Persino “cristiano” è parola greca, perché Christòs era la traduzione greca dell'ebraico “Messia”».
E già da queste prime battute, tratte dall'introduzione, c'è materia per convincersi che questo è un testo da leggere, perché oltre a riportarci alle radici ci mette anche abbastanza in discussione, lasciandoci quel piacere proprio delle letture che aggiungono, quelle letture che magari costringono a un ribaltamento dei convincimenti ma che nel farlo trasferiscono il divertimento della comprensione.
Scrive Ieranò «il greco non è una lingua morta. É una lingua vivissima per la semplice ragione che, caso unico al mondo, continua a essere parlata da millenni, senza interruzioni…Ed è una lingua viva anche perché, quando la modernità si è inventata parole nuove, le ha spesso create sullo stampo del greco. Utopia, nostalgia, ecologia, xenofobia, psichedelia, tutti termini coniati dopo il Medioevo, e alcuni anche in tempi molto recenti, sono costruiti con radici greche».
E questo è noto, poi ci sono quelle parole in cui c'è sempre lo zampino greco ma in modo meno evidente. Ad esempio «anche “gamba” per citare solo un altro caso viene da kampè, “giuntura, piegamento”». Con non poche sorprese come nel caso della parola glamour. Inglese, ma con salde radici greche: «una corruzione di grammatikè, “grammatica”».
Il testo di Ieranò è certamente un percorso che parte dalle parole per costruire la mappa di quei riferimenti che tanto sul piano storico e filosofico quanto su quello meno consapevole della coscienza collettiva costituiscono la nostra identità culturale, ma rompe anche lo schema proprio di quei testi che affrontano il tema dell'eredità linguistica solo in chiave etimologica.
Si pensi a un saggio di qualche anno fa che si intitolava Il nostro greco quotidiano del grecista Pietro Janni. Testo che Ieranò cita per ribadire quanto c'è del greco nella nostra quotidianità e riallacciarsi così alla tradizione di questa letteratura scientifica ma anche per lanciare lo sguardo oltre: per spiegare come «questa onnipresenza» sia il risultato di una «complessa vicenda culturale». Allora le parole che Ieranò cita (da psiche a mistero, da filosofia a teologia) sono scelte per aprirci a questa complessità e trasferirci anche un metodo. Qui si tratta di imparare a usare la stratificazione del linguaggio per conoscere la storia. «La storia intesa innanzitutto come storia della tradizione, cioè dei modi attraverso i quali le idee, i testi e le parole degli antichi sono stati tramandati». Con una avvertenza: questo è un viaggio dentro una selva. «La selva dove a ogni angolo si incrociano le ideologie, le passioni, i sogni di diverse epoche dell’umanità».
Giorgio Ieranò
Parole della nostra storia. Perché il greco ci riguarda
Marsilio (pp.224, 17 euro)
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