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La notte prima degli esami ormai incombe. Per gli studenti del liceo classico, gli incubi notturni avranno la forma della versione dal greco, prevista quest'anno come seconda prova. Poi verrà il giorno dopo l'esame. Si discuterà se era meglio il Platone di quest'anno o l'Isocrate dell'anno scorso, quante insidie nascondesse quel periodo ipotetico o quanto fosse chiara quella consecutiva. E soprattutto, tornerà ad aleggiare la domanda che agita spesso gli animi di studenti e genitori, professori e opinionisti: serve davvero a qualcosa il liceo classico? È utile la cultura umanistica? Il greco e il latino non saranno superati?
È una domanda che molti sono tornati a porsi negli ultimi tempi. Alcuni hanno sostenuto che il liceo classico, istituzione ormai solo italiana, è cosa vecchia e polverosa. I paladini del greco e del latino hanno risposto con la retorica sui classici baluardo della “cultura occidentale” e sulle lingue morte “palestra per la mente”. Intanto, libri come La lingua geniale di Andrea Marcolongo (Laterza), parlando di aoristi e di ottativo, hanno venduto decine di migliaia di copie. Nicola Gardini, autore a sua volta, per l'editore Garzanti, di Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile, ha proclamato che chi esce dal classico «sa parlare, sa scrivere, sa pensare, sa riconoscere il duraturo e l'effimero, capire la libertà, la bellezza, la varietà e la concordia». Se fosse vero, il liceo classico non sarebbe una scuola, ma una pozione magica.
Potremmo riassumere la questione nei termini seguenti. Da un lato, «l'Italia ha più bisogno di uomini che producono che di uomini che parlino e scrivano, più di commercianti e di tecnici che di commentatori di classici». D'altro lato, se abbandonassimo l'insegnamento del latino, «tutti coloro i quali non svolgono, professionalmente, gli studi classici ignorerebbero totalmente quella lingua. Il latino diverrebbe una cognizione di eccezione, bandita del tutto dalla preparazione generale delle classi colte. E ciò sarebbe un gravissimo errore».
Così argomentava il 17 settembre 1906, sul quotidiano socialista L'Avanti, Ernesto Cesare Longobardi, uno dei futuri fondatori del Partito comunista. Giusto per ricordarci che certi dibattiti sono di lunga data. Come lo è il lamento sulla decadenza degli studi classici. Nella relazione generale Sulle condizioni della pubblica istruzione nel Regno d'Italia (anno 1865) si legge: «Le lettere latine non sono studiate né amate dai giovani e, in quanto a cognizioni di latino, si ha un notevole regresso da venticinque anni a questa parte». Ma si può risalire fino a Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti: «L'insegnamento del greco e del latino è ormai in disuso in Europa», lamentava. Ed era l'anno 1782.
Dibattito di lunga data, dunque. Come ben sa Federico Condello, filologo classico dell'Università di Bologna e autore del recentissimo La scuola giusta. In difesa del liceo classico (Mondadori). Un libro che, finalmente, mette tra parentesi la retorica e punta sui dati nudi e crudi. Dimostrando, per esempio, statistiche alla mano, che solo una minoranza degli studenti del liceo classico segue poi studi di tipo umanistico all'università. Dove, comunque, i diplomati al liceo classico ottengono i voti migliori. Facile, si dirà: sono tutti figli di papà, vengono da famiglie istruite e perciò partono avvantaggiati. Ma anche questo è vero fino a un certo punto: in termini numerici, nota Condello, la percentuale di figli di papà che fanno lo scientifico è assai maggiore. Il classico, insomma, resta ancora una scuola utile. Utile per tutto, forse, tranne che per imparare il greco e il latino. Lingue che, dopo cinque anni di studi, restano largamente ignote.
Notava, anni fa, Beniamino Placido: «Il glorioso liceo classico aveva (forse ancora ha) una capacità, francamente mostruosa. La capacità di far dimenticare immediatamente, completamente, il latino e il greco appresi nelle sue aule. I nostri nostalgici del liceo classico, quando in vacanza incontrano un'epigrafe antica, distolgono prudentemente lo sguardo, per non fare cattiva figura davanti ai figli (che mandano ovviamente al liceo classico). Sorge il sospetto che il nostro liceo classico abbia sempre insegnato non tanto il latino e il greco, quanto la presunzione di conoscere il latino e il greco». Ma, naturalmente, si può ribattere, come fa Condello, con le parole di Antonio Gramsci: «Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare».
Lo scrittore Luigi Meneghello ci ha consegnato un arguto ricordo dei suoi anni liceali. Nelle letture scolastiche, scriveva, «si trovavano memorabili battute di guerrieri filosofi, ragguagli sugli effetti delle pugnalate e sulla boria, e con poche altre cose, qualche modello di bellezza suprema. Molti singoli versi greci e latini, come “l'ambidestro campione asteropeo” (Iliade del Monti), s'imprimevano profondamente negli animi; e c'erano infine quelle stimolanti trovate circa la natura del mondo, per esempio “panta rei”, e una serie di arguti ideali, a cominciare dal “calò-cagazzò”». Da allora il classico è cambiato. Anche se, forse, si può ancora fare qualcosa per svecchiarlo ulteriormente. Maurizio Bettini, per esempio, ha proposto di aggiungere alla tradizionale versione dal greco o dal latino, nella prova di maturità, una serie di domande relative al testo. Proposta che molti (compreso Condello che la contesta vigorosamente) hanno ritenuto un attentato al nobile esercizio del tradurre. Ma che in realtà potrebbe essere un modo ragionevole per verificare che gli studenti abbiano davvero capito il testo che stanno traducendo.
Intanto, ai maturandi di quest'anno possiamo consegnare come viatico una difesa dell'istruzione classica che Condello cita nel suo libro: «La cultura deve fondarsi sulle discipline umanistiche. Altrimenti si rinuncia a forze più importanti di ogni sapere tecnico. Non si deve abbandonare lo studio degli antichi; l'ideale della civiltà ellenica deve esserci preservato nella sua esemplare bellezza». Nobilissime parole. Peccato le abbia scritte Adolf Hitler nel Mein Kampf.
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