Giovanni BORACCESI, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Aetofolia, Kalloni, Karkados, Smardakito e Vrissi
DOI: 10.7431/RIV10072014
Tinos, un’isola come le altre dell’arcipelago delle Cicladi, fatta di rocce e di profonde valli, con bassi cespugli spinosi che si stagliano su un incantevole mare verde-azzurro. Muretti a secco (xerolithiés) e caratteristiche colombaie – bianche torri in pietra con decorazioni geometriche costruite dai veneziani fin dal XIII secolo – si rincorrono su pendii assolati e spogli e su qualche fertile pianura. Poi, d’improvviso, una manciata di candide case abbarbicate a inglobare chiesette bianchissime, tanto di rito ortodosso quanto cattolico, tutte nobilitate da porte e da finestre con rilievi in marmo. Eppure in questo paesaggio aspro e brullo si cela, inaspettato, un patrimonio di argenti sacri che saccheggi e cambiamenti di gusto non hanno per fortuna del tutto cancellato.
Tali reperti, provenienti da ogni dove, in particolare quelli custoditi nelle chiese cattoliche e finora mai indagati in sede scientifica, possono vantare un’alta concentrazione e una straordinaria varietà. Ciò ha la sua origine sia nella storia peculiare – l’isola cicladica fu a lungo dominio della famiglia veneziana dei Ghisi, poi della Serenissima e in seguito dell’impero ottomano –, sia nell’istituzione di diverse sedi episcopali latine tra loro confinanti e in seguito soppresse o aggregate: Tinos, Naxos, Paros, Andros, Mykonos, Siros, Milos e Santorini –, sia nella posizione geografica, essendo quest’area passaggio obbligato verso Costantinopoli, le coste del Mar Nero e il Mediterraneo orientale.
Lungo il predominante cammino dei commerci marittimi tra l’Occidente e il Levante viaggiarono anche raffinate suppellettili e fra queste numerose furono le oreficerie e i paramenti. La dominazione ottomana in questa parte della Grecia insulare – pressappoco dal 1537-1538, ma a Tinos dal 1715 – non fu particolarmente repressiva come altrove, visto che lasciò ampia libertà di culto per i cristiani cattolici e per quelli ortodossi che ebbero modo di approvvigionarsi dei necessari arredi.
Gli argenti di Tinos, come quelli di Naxos, coprono un arco di tempo compreso tra il XVI e il XX secolo. Ricco e variegato è il loro catalogo, poiché oltre al consueto repertorio veneziano qui sono testimoniati altri importanti reperti provenienti da diversi centri europei: da Palermo, da Messina, da Napoli, da Torino, da Genova, da Roma, da Vienna, da Varsavia, da Augusta, da Parigi, dalla Turchia, dalla Russia e ovviamente dalla Grecia (la cittadina di Kalarrytes, nell’Epiro, fu un rinomato centro manifatturiero).Spicca la folta rappresentanza dell’argenteria di Venezia, in specie quella più antica, che è indicatore privilegiato dei rapporti intrattenuti dall’isola con la Serenissima. Γνωστός είναι και ο αγιογράφος Γεώργιος, ο οποίος με τον αδελφό του Στέργιο ιστόρησε το 1737 το παρεκκλήσι του Προδρόμου της Μονής Βύλιζας, κοντά στους Καλαρρύτες.
Un nuovo e straordinario afflusso di suppellettili preziose – in primo luogo dalla Francia, tanto da incrementare le conoscenze dei suoi artisti – avvenne dopo la cacciata dei Turchi e all’indomani della tanto sospirata indipendenza della Grecia (1830), condizione determinante per una più ampia libertà di culto. Esemplare, in tal senso, fu l’azione evangelizzatrice della Congregazione di Propaganda Fide,istituita a Roma da papa Gregorio XV nel 1622, che, per ogni occorrenza, non mancò di far pervenire argenti liturgici, come nel caso della pisside della chiesa di San Michele a Tarambados, che esaminerò in altra occasione.
Si diceva, dunque, che nel loro insieme questi pezzi rappresentino un piccolo ma significativo compendio dell’arte argentaria europea, che spazia dal tardo rinascimento al barocco, dal rococò al neoclassicismo, dal revivalismo all’eclettismo.
In questa temperie culturale, sempre al passo con le novità rivenienti dall’Italia e dall’Europa centrale,ebbero un ruolo predominante le committenze di vari soggetti: i vescovi di Tinos – per lo più di origine italiana e anche qui, come in tutto il mondo cattolico, intenti a propagandare le istanze controriformistiche del concilio di Trento (1545-1563); gli ordini religiosi, in particolare i Gesuiti e due comunità di Minori Conventuali; i ricchi mercanti, i cui traffici economici spaziavano dall’una all’altra sponda del Mediterraneo. Non da meno fu il contributo, silente e riverente, dei tanti fedeli del posto e dell’arcipelago delle Cicladi.
Le opere più insigni fra quelle importate dall’Occidente diedero vita, qui come nella vicina Turchia, a imitazioni che originarono pezzi talvolta perfino singolari e ovviamente non immuni dalla koinè culturale del luogo (croci processionali, turiboli, navicelle, lampade pensili, per citare solo alcuni). È lecito supporre che a Tinos, come in altri importanti centri delle Cicladi e dell’Egeo orientale, dovettero esistere delle botteghe orafe gestite da abilissimi maestri greci e turchi, capaci di soddisfare le richieste interne del clero dell’una e dell’altra Chiesa – quella ortodossa ha qui il più celebre santuario mariano dedicato alla Panaghia Evangelistria (1830) che trabocca di ex voto e di oggetti preziosi – come pure dell’aristocrazia locale che richiedeva manufatti di lusso o di uso domestico, gioielli e preziosi ornamenti degli abiti di gala.Non meno decisiva fu la committenza di argenti, anche qui per esigenze di culto e di uso privato, degli occupanti turchi.
È opportuno, al riguardo, richiamare i nomi di diversi orafi ellenici immigrati in Italia; come l’argentiere Giovanni Fakis (o Faces o Faci, com’è anche denominato dai documenti d’archivio) originario di Tinos, dove era nato attorno al 1634, e attivo a Roma tra il 1685 e il 1692. Esemplare è anche il rinvenimento nella cattedrale di Naxos di un elegante secchiello per l’acqua benedetta, realizzato nel primo Ottocento da un argentiere greco come attesta il punzone con le lettere φ χ.
Un punto di partenza per chi intenda scoprire la storia plurisecolare dei cattolici di Tinos è la visita al Museo del Vescovado di Xinara. Istituito nel 1990, è ricco di interessanti e variegate collezioni d’arte, aspetto offerto, seppur in misura minore, anche dal piccolo Museo Parrocchiale di Agapi.
Per ragioni di spazio e di organizzazione, qui mi limiterò ad analizzare un primo gruppo di argenti, quelli conservati nei villaggi di Aetofolia, Kalloni, Karkados, Smardakito e Vrissi; in seguito, e in più tappe, esaminerò il patrimonio dei restanti villaggi nonché i preziosi reperti censiti nel menzionato Museo di Xinara, nel palazzo episcopale e nelle due più importanti chiese del capoluogo, rispettivamente di Sant’Antonio da Padova e di San Nicola da Myra.
Tuttavia è bene rammentare che alcune argenterie barocche dell’isola di Tinos, in particolare quelle di produzione palermitana rinvenute nel palazzo vescovile e nella chiesa di san Zaccaria a Kalloni, sono già state da me segnalate nel 2011. Sempre a Tinos, inoltre, vivo interesse ha suscitato la recente esposizione di argenti liturgici provenienti dalle locali chiese di rito ortodosso e di rito cattolico.
Immerso nella solitaria campagna dell’isola, il santuario di Vrissi è dedicato alla Dormizione della Madonna, patrona dei cattolici di Tinos. Custodisce numerosi ex voto in lamina d’argento con raffigurazioni di natura prettamente antropologica e di vita marinara, che testimoniano la singolare riconoscenza dei tinesi alla loro protettrice, ma anche due calici in metalli preziosi il più antico dei quali (Fig. 1) è riconducibile ai più volte ricordati rapporti con la Repubblica di Venezia. È il risultato dell’assemblaggio di pezzi disomogenei essendo il nodo ovaliforme e la coppa, priva del sottocoppa(andato perduto in un periodo imprecisato), andrebbero databili agli inizi del XVII secolo; qui è impresso il punzone di Venezia con la raffigurazione del leone di San Marco. A una successiva fase di manutenzione andrebbe ricondotta la base attuale: interessata da una fascia di foglie appuntite e da un fitto motivo a girali, è punzonata con il bollo del Delfino entrato in uso a Venezia dal 25 dicembre 1810.
Lo schema compositivo è ricorrente tra le botteghe orafe di Venezia e analoghi esemplari, da trattare più innanzi e altrove, si sono rinvenuti in molte chiese dell’isola.
Di più alta considerazione è il secondo calice (Fig. 2a), in ragione dell’indiscussa qualità esecutoria e del prestigio del suo donatore, l’arcivescovo Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro papa Giovanni XIII (1958-1963). Sul manufatto è incisa la seguente iscrizione: B. V. Mariae Vrissiensi Catholicorum Thinensium Patronae Archiepiscopus Angelus Joseph Roncalli in Grecia Delegatus Apostolicus in Memoriam D(ono) D(onavit) XV Augusti 1937.
Non dovrà stupire la presenza di una simile opera, poiché il 24 novembre 1934 il Roncalli fu nominato delegato apostolico in Turchia e Grecia (12 gennaio 1935 – 23 dicembre 1944), risiedendo a Costantinopoli, precisamente nell’isola di Büyükada (arcipelago delle Isole dei Principi). In realtà il calice, come mi comunica padre Marco Foscolos, fu spedito nel 1938 all’allora vescovo di Tinos Alessandro Guidati (1929-1947) in ricordo della messa celebrata a Vrissi dall’arcivescovo Angelo Giuseppe Roncalli com’è testimoniato dall’epistola datata 3 maggio 1938 che accompagnava il calice e oggi custodita nell’archivio di Xinara.
Va detto subito, però, che il calice di Vrissi è più antico della data indicata, poiché su di esso è impresso il punzone con la raffigurazione della Torretta, emblema della città di Genova, e del sottostante millesimo che, se pur consunto [17]7(?), ci autorizza a datarlo tra il 1770 e il 1779. A tale reperto fa da pendant una patena (Fig. 2b) con il punzone della Torretta e il millesimo [17]78 che ho avuto modo di rinvenire nel Museo del Vescovado di Xinara, custode, come s’è detto, di una notevole raccolta di argenti.
Una fastosa e preponderante decorazione di natura vegetale, frammista a testine di angeli alati, connota il manufatto del santuario mariano, che può confrontarsi con il calice del 1776 della chiesa di Sant’Andrea a Levanto, con quello del 1777 della chiesa di San Sebastiano ad Arbus (Cagliari) e con l’altro del 1778 del santuario di Nostra Signora di Misericordia a Savona.
Nel villaggio di Smardakito la chiesa di Sant’Antonio da Padova conserva una bella croce processionale(Fig. 3) composta di lamine d’argento sbalzate e cesellate, in sostanza costituita da due pezzi cronologicamente distanti, e opera di altrettanti argentieri.
Sebbene lacunosa di alcuni elementi decorativi a fusione (palmette, fiori, testine di angeli), la morfologia del reperto richiama un tipo di croce processionale che ebbe larga fortuna a Venezia e nei suoi domini in età gotica, rinascimentale e barocca.
Questo modello – si vedrà più innanzi e in altre occasioni – oltre che a Smardakito ricompare anche su una ventina di altre croci ugualmente custodite nelle chiese cattoliche dell’isola. Alcune di esse, databili tra il XVI e il XVIII secolo, per impianto ed elementi decorativi sono di sicura manifattura veneziana: la croce processionale di Santa Maria ad Nives a Chatzirados – si anticipa in questa sede – è la più antica e raffinata e costituì il probabile exemplum per le altre qui rinvenute. Talaltre croci, all’incirca databili al XIX secolo e qualcuna contraddistinta dal riutilizzo di un più antico innesto a tubo di produzione veneziana, saranno state prodotte da mediocri artefici locali.
La croce di Smardakito, di forma latina, è profilata da un motivo a traforo di volute contrapposte e di palmette (ne restano tre su undici); fasci di raggi sono saldati all’incrocio dei bracci. Sul lato principale è presente il Crocifisso e nelle terminazioni il Padre Eterno (in alto); la Vergine (a sinistra); san Giovanni evangelista (a destra); la Maddalena (in basso). Sul lato secondario, ove è incisa la data 1818, figuranol’Assunta (al centro); san Giovanni evangelista (in alto); san Matteo (a sinistra); san Luca (a destra); san Marco (in basso). Per la sua mediocre fattura, ho ragione di credere che la croce sia stata eseguita da un argentiere del posto.
Di più alta qualità è l’innesto della mazza processionale decorato da baccelli, da volute fogliacee e da foglie di acanto che in maniera spiraliforme ne avvolgono il corpo tubolare. Il pezzo presenta tre punzoni: l’emblema del Leone di san Marco; il contrassegno della Zecca, esplicitato dalle lettere M**G e finora datato tra il 1762 e il 1776; il marchio dell’ignoto autore, siglato PD.
Sempre a Smardakito ho rinvenuto una pisside (Fig. 4) ottocentesca di manifattura parigina. Gli elegantimotivi decorativi che la connotano, facilmente riscontrabili anche sui coevi calici francesi, sono legati alla simbologia liturgica: grappoli d’uva, spighe di grano e canne d’acqua, ognuno racchiuso entro medaglione o cornice mistilinea.
Sul manufatto è impresso il bollo di garanzia con la testa di Minerva e quello dell’argentiere François Hubert Martin (1830-1862), una losanga includente la sigla F H/M, il cui laboratorio era installato al numero 22 di place du Parvis Notre Dames.
È innegabile la stringente concordanza stilistica tra la pisside di Smardakito – la cui tipologia ho riscontrato essere diffusissima nelle chiese greche finora investigate – e quelle della cattedrale di Naxos, opera dello stesso François Hubert Martin, e della chiesa di Karkados che analizzerò più innanzi.
Appena tre sono gli argenti conservati nella chiesa di San Giovanni Battista ad Aetofolia: una lampada pensile e un turibolo, entrambi di manifattura orientale, e una pisside di probabile produzione parigina o romana.
La lampada (Fig. 5), dal corpo panciuto e dal profilo movimentato, è lavorata a traforo con eleganti motivi vegetali che sembrano ispirarsi a quelli europei di età barocca: fiori, fasce di foglie e festoni penduli. In tre punti equidistanti sono saldate altrettante teste di angeli alati, cui si agganciano le catene di sospensione.
Il bollo impresso è quello statale dell’Impero Ottomano, connotato dall’alfabeto arabo, riferito al titolo 900/100 e valido dal 1844 al 1923; il nostro esemplare, forse licenziato da un laboratorio di Smirne o di Istambul, andrebbe pertanto datato alla seconda metà del XIX secolo. Altre lampade pensili di manifattura turca, collocabili entro i medesimi limiti cronologici, si sono copiosamente rintracciate a Tinos:si vedano, per esempio, le due di Kalloni che tra poco analizzeremo.
Di probabile origine russa è il successivo turibolo (Fig. 6), la cui coppa mostra una serie di profonde nervature alternate a superfici rigonfie. Il movimentato coperchio, lavorato a traforo, è ingentilito da un motivo trifogliato che ritorna sul sovrastante bulbo, la cui forma richiama le cupole delle chiese ortodosse;in cima è saldato un globo con una croce russa.
L’oggetto, forse da datare alla metà del XIX secolo, presenta vari punzoni, non tutti di facile lettura: sulla croce ho rilevato un bollo di forma rettangolare con le lettere cirilliche М:Д (quello dell’argentiere?); un altro evidenzia il numero 84, forse il titolo dell’argento (zolotniki); il terzo marchio è incomprensibile; dell’ultimo, invece, sono riuscito a interpretare, in alto, le lettere cirilliche И·А, in basso, la sola lettera finale (?)(?)(?)О.
Di semplice fattura è la successiva pisside (Fig. 7), databile attorno alla metà Ottocento. La base circolare, leggermente rigonfia, è ravvivata da una serie di cornici cordonate e perlinate; il nodo è a balaustro. La coppa, in argento dorato, è chiusa da un coperchio sormontato da croce. Il punzone qui impresso è purtroppo consunto, per questa ragione è difficile definirne con precisione la cronologia e il luogo di produzione pur potendo, dato lo stile, supporsi un’origine parigina o romana.
A Kalloni la chiesa cattolica è intitolata a San Zaccaria. Qui, come ho avuto modo di comunicare più diffusamente in altra sede (G. Boraccesi, A Levante di Palermo…, 2011, pp. 62-63; Idem, Ανατολικά του Παλέρμο,Τήνου 2013, σσ. 322-323; per un errore di stampa la figura dell’ostensorio è la numero 1 e non la numero 2.)), si conserva un ostensorio (Fig. 8) (la raggiera non è originale) realizzato a Palermo nel 1747 da un argentiere monogrammato G*.
Il successivo pezzo liturgico è riferito a un fastoso calice (Fig. 9) in argento dorato la cui superficie è movimentata da modanature, da elementi fogliacei e da testine angeliche inframezzate a ghirlande penduli. Il motivo dei cherubini torna a decorare sia il nodo piriforme del fusto, sia il sottocoppa: qui le teste degli angeli sono accoppiate e fuoriuscenti da un fondo di larghe foglie.
Per questo manufatto, privo di punzoni e forse databile alla metà del XVIII secolo, a mio parere vanno riconosciute tangenze morfologiche e decorative riconducibili a un ambito culturale d’oltralpe, in particolare dell’Austria e della Germania meridionale. Non è questo un episodio isolato, poiché nella chiesa di Sant’Antonio a Tinos ho censito un interessante gruppo di argenti viennesi che tratterò in un’altra occasione.
Ancora al XVIII secolo andrebbe ricondotta l’esecuzione di un elegante turibolo (Fig. 10) che, pur risentendo palesemente dei modelli occidentali, potrebbe essere opera di un argentiere autoctono o turco affascinato dalle tipologie e dai decori rivenienti dall’Europa.
La coppa del braciere poggia su un piede circolare il cui orlo è leggermente bombato e abbellito da un motivo a baccelli. La superficie della coppa, come quella del cupolino lavorato a traforo e terminante con una calotta baccellata, è interessata da un fitto repertorio di natura vegetale, in particolare foglie e serti floreali inframmezzati a volute contorte. Alquanto insolita e di sapore orientaleggiante è la forma del piattello delle catenelle: una struttura piramidale, a mo’ di umbone, decorata da lunghe foglie accostate eancora da baccelli.
Di produzione turca è l’ennesima lampada pensile (Fig. 11), come certifica il punzone del titolo 900/1000, valido dal 1844 al 1923; accanto è impresso un secondo punzone, incomprensibile. Le forme sono eleganti e ancor più i decori di natura vegetale, realizzati con particolare cura e maestria: tutti elementi in sintonia con il gusto neoclassico.
Il corpo principale della lampada, segnata da piccoli trafori, è racchiuso in una specie di corolla floreale che accoglie, tra un petalo e l’altro, minute foglie frastagliate; un serto di foglioline d’identica natura neconnota anche la parte inferiore. Volute vegetali, saldate in tre punti equidistanti, trattengono le catene di sospensione; sul bordo superiore si sviluppa un motivo a traforo e una fascia orizzontale di foglie di quercia.
Contemporaneamente e per le esigenze della medesima chiesa di San Zaccaria, qui giunse un’altra lampada pensile (Fig. 12), di cui andrà pure rilevata l’origine turca.
La parte inferiore è interessata da un motivo a foglie appuntite alternate a una lavorazione a traforo di foglie e fiori (garofani?), un repertorio quest’ultimo ampiamente utilizzato dai ben noti laboratori ceramici di Iznik. La parte superiore presenta due sinuosi festoni fogliacei arricchiti nel loro punto di intersezione da una margherita. Tre palmette a ventaglio, fuoriuscenti dal corpo della lampada, trattengono le catenelle di sospensione, a loro volta unite al cupolino superiore; anche il bordo presenta un motivo a foglie traforate.
A un ennesimo laboratorio turco, probabilmente di Smirne o di Istanbul, va ricondotta l’esecuzione di un altro turibolo (Fig. 13), anch’esso punzonato con il già descritto bollo dell’Impero Ottomano.
Sia la coppa sia il coperchio traforato sono caratterizzati da un motivo a baccelli; quelli del coperchio, in particolare, manifestano un accentuato rigonfiamento. Per certi aspetti, la sua morfologia è vicina a quella delle lampade pensili in argento di manifattura veneziana. Grazioso è il modo di trattare a mo’ di girandola il piattello delle catenelle.
Pur rifacendosi, come detto, a prototipi aulici dell’oreficeria veneziana di età gotica e rinascimentale, che certo non dovettero mancare nelle chiese di Tinos e delle altre isole dell’arcipelago, questa croce processionale (Fig. 14), forse da assegnare a un artefice locale, va stilisticamente datata alla prima metà del XIX secolo.
Sul recto è il Crocifisso e nelle terminazioni i quattro evangelisti accompagnati dai rispettivi attributi iconografici. Sul verso è presente il Cristo Risorto, in argento dorato, e nelle terminazioni il Padre Eterno (in alto), la Madonna (a sinistra), san Giovanni evangelista (a destra) e la Maddalena (in basso). Se le due figure cristologiche sono trattate con una certa proporzione e cura, le altre, evidenziano una maniera impacciata e goffa.
Per la varietà delle manifatture censite e soprattutto per la qualità di alcune opere, un particolare interesse rivestono gli argenti della chiesa della Trasfigurazione a Karkados.
La prima di queste suppellettili liturgiche è un calice (Fig. 15) di manifattura veneziana, la cui base e il fusto, con nodo a oliva, sono in bronzo fuso e dorato e andrebbero datati alla seconda metà del XVI secolo. Le superfici sono decorate dal tradizionale motivo ad arabeschi che connota tutta una serie di analoghi esemplari sparsi un po’ ovunque e prodotti a Venezia tra il XVI e il XVII secolo. La coppa, priva del sottocoppa, non è coeva (XVIII secolo) e perciò andrà considerata come un elemento di riutilizzo. Tre sono i punzoni impressi su questa parte del manufatto: il leone di San Marco, il contrassegno di controllo della Zecca, ovvero le lettere ZC intervallate da una torre merlata, e quello dell’autore con le lettere A Z. Un quasi identico esemplare si conserva nella cattedrale di Naxos.
Il successivo calice (Fig. 16) è anch’esso il risultato di una manipolazione occorsa durante un restauro avvenuto in epoca imprecisata. La base circolare e il fusto con nodo a oliva sono in peltro, mentre la coppa e il sottocoppa sono in argento. Quest’ultimo si contraddistingue per un raffinato motivo vegetale di gusto neoclassico eseguito a incisione e a traforo, decoro che ricompare su altri argenti di Tinos, come le sopraindicate lampade pensili di Aetofolia e Kalloni. Il reperto andrebbe datato al primo Ottocento e assegnato a un probabile argentiere turco.
Anche nella chiesa della Trasfigurazione di Karkados non manca, tra la suppellettile in argento, una croce processionale (Fig. 17), forse realizzata nella prima metà del XIX secolo. Sul lato principale è inchiodato il Crocifisso, in bronzo dorato come il cartiglio a lettere greche. Nelle terminazioni trilobate sono sbalzate le probabili figure dei quattro profeti maggiori, Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele, che stringono un appariscente filatterio. Il perimetro della croce è ingentilito da un motivo a perline e dall’applicazione di testine angeliche (ne manca una) ed elementi vegetali sagomati e traforati. Sui due bracci si sviluppa un complicato decoro naturalistico che, in maniera più elaborata, si ripete sul lato secondario della croce, le cui terminazioni accolgono i quattro evangelisti e, nel mezzo, la figura della Madonna assisa su un banco di nuvole. Sobri decori interessano il nodo a bulbo, cui è attaccato l’innesto tubolare per l’inserimento della mazza processionale.
La croce, nel suo insieme – frutto di una mescolanza di stili occidentali e orientali – manifesta la cultura di tradizione greca del suo ignoto artefice.
Le successive opere della chiesa di Karkados costituiscono una piccola raccolta di argenteria riconducibile alla produzione francese dell’Ottocento: si tratta di un calice, di una pisside, di un turibolo e di una coppia di ampolle.
Queste ultime (Fig. 18), dotate di relativo sostegno o ampolliera, sono caratterizzate da una straordinaria qualità esecutiva che trova una giustificazione nel nome dell’argentiere. Il punzone romboidale apposto, con le lettere J·C/C, rimanda al noto Jean-Charles Cahier (Soissons 1772 – Marsiglia 1857), Orfévre du Roi.
Sull’argento è pure impresso il punzone di garanzia, poco leggibile ma probabilmente raffigurante la testa di Cerere vista di profilo, valido dal 16 agosto 1819 al 9 maggio 1838, arco cronologico, dunque, in cui andrà individuato l’anno di realizzazione del manufatto.
Tanto la morfologia delle due ampolle quanto le decorazioni sono chiaramente modellate sull’arte antica, dunque improntate ai caratteri stilistici del nuovo gusto neoclassico: si veda, ad esempio, la fascia con il motivo della greca che cinge la parte più ampia del vaso. Questi oggetti, utilizzati nella messa durante la consacrazione delle specie eucaristiche e destinati a contenere l’uno il vino e l’altro l’acqua, si differenziano per particolari ornativi legati al loro uso: quello dell’acqua è caratterizzato da un motivo a canne d’acqua e da una conchiglia che sovrasta il coperchio; quello del vino da foglie di vite e grappoli d’uva sull’altro coperchio.
Il vassoio, di forma ovale, è provvisto di due piccoli tubi verticali nei quali, per maggior staticità, si inseriscono le ampolline.
La tipologia e i decori di questo genere di suppellettile ebbero particolare fortuna tra gli ateliers parigini del primo Ottocento: Alexandre Thierry, per esempio, eseguì un analogo servizio per la cattedrale di Naxos. Sono poi possibili altri confronti, come con le ampolline di Bertrand-Paraud del Louvre e le ampolline dello stesso Jean-Charles Cahier per la cattedrale di Ravenna.
Nello stesso torno di tempo, o poco oltre, qui pervenne una pisside (Fig. 19) di François Hubert Martin (1830-1862), lo stesso che eseguì quella di Smardakito. L’esemplare di Karkados, decorato dai consueti simboli eucaristici del grano, dell’uva e delle canne d’acqua, andrà datato dopo il 1838, poiché il bollo di garanzia con la testa di Minerva andò in uso dal 9 maggio 1838.
La pisside, oggi mancante del sottocoppa traforato, è frutto della committenza di una devota, come si evince dall’iscrizione latina: Ex Dono Ill(ustrtissi)mae D(on)nae Mariae Kirico.
Tra gli anni Sessanta-Settanta dell’Ottocento andrà fissata la realizzazione di un elegante turibolo (Fig. 20) punzonato con il bollo parigino di MARTIN/& LEBAS, l’atelier artigianale di Antoine Martin e Edmond Lebas, il cui sodalizio, installato al 20 Parvis Notre Dame, prese l’avvio il 27 gennaio 1865. Il secondo punzone impresso è quello del titolo di garanzia: una testa non meglio definita.
Il turibolo, dalla linea movimentata, poggia su un piede circolare decorato da una fascia di ovoli. La coppa presenta una decorazione molto elaborata composta di baccellature piatte e girali di foglie d’acanto. Il coperchio, lavorato a traforo e ripartito in tre campi uguali, è diviso da un’altra fascia di ovoli; nella parte inferiore, predominano coppie di testine angeliche; in quella superiore, volute affrontate che affiancano un medaglione ovale. In cima al coperchio troneggia una fiamma ardente con anello apicale.
Un linguaggio semplificato caratterizza l’ultimo reperto francese di questa chiesa di Karkados. Si tratta di un ennesimo calice (Fig. 21), purtroppo privo del sottocoppa, decorato da un minuto e preciso motivo di natura vegetale eseguito a incisione. Il nodo schiacciato del fusto si rifà a modelli più antichi.
Il punzone PP/R, messo accanto a quello con la testa di Minerva, è pertinente all’argentiere parigino Placide Poussielgue Rusand (1847-1891), operante in rue Cassette. Il calice, di gusto eclettico, andrebbe datato alla fine del XIX secolo, comunque prima del 1891.