Monica Centanni-Paolo B. Cipolla Le radici della nostra cultura
Ritorna ciclicamente a vari livelli e in varie sedi, dai mezzi di comunicazione ai dibattiti parlamentari, la domanda: che senso ha oggi studiare il greco e il latino? Una domanda spesso rinfocolata da polemiche stucchevoli e argomenti pretestuosi: a che serve conoscere le lingue “morte”?
Potremmo rispondere che veramente “morto” è solo ciò che “non lascia eredità d’affetti”, per citare Ugo Foscolo: e questo non si può certo affermare delle lingue classiche, che ci hanno lasciato un immenso patrimonio linguistico e culturale sul quale poggia la nostra civiltà e al quale continuamente attingiamo. L’italiano, come molte delle lingue parlate nel mondo, conta nel suo lessico innumerevoli parole derivate dal greco. La letteratura italiana, e in genere quella europea, fin dalle origini ha dialogato con l’antichità, ricavandone modelli, temi, idee, interi generi letterari come l’epica o il teatro: Dante non sarebbe Dante senza Virgilio (il quale a sua volta non esisterebbe senza Omero), e il teatro dell’età moderna nasce con la riscoperta, nel Rinascimento, da un lato del dramma antico e della Poetica di Aristotele, dall’altro delle tragedie di Seneca e delle commedie di Plauto e Terenzio. Risalire alle fonti di questa eredità, sia sul piano linguistico sia su quello culturale, significa capire meglio non solo la lingua che parliamo, ma anche la civiltà a cui apparteniamo e i suoi meccanismi. Significa capire meglio noi stessi. E alla facile obiezione che tentare di comprendere i testi letterari greci e latini affrontandoli nella loro lingua originale è una fatica inutile perché tanto ci sono già le traduzioni, potremmo replicare che fra una traduzione e un testo in lingua originale c’è la stessa differenza che passa tra una fotografia o un filmato e la realtà: la foto o il filmato possono essere anche opere d’arte in sé belle e poetiche -e tante traduzioni lo sono- ma non sono la realtà del testo. Leggere un testo in traduzione, senza poter nemmeno buttare l’occhio sull’originale a fronte, ci preclude la possibilità di respirare l’aria autentica del testo antico con i suoi profumi, di ascoltarne la musicalità intendendone ritmi, toni, prosodia, di toccarlo come tocchiamo gli oggetti reali, di muoverci in quello spazio in modo libero e al contempo attento al dettaglio, e non secondo la prospettiva del traduttore che fa le funzioni del fotografo o del cineoperatore. Una traduzione ci restituisce il senso e il contenuto di un passo, ma difficilmente può riprodurne la sonorità con i suoi effetti ricercati, i giochi di parole, la ricchezza di significati e di legami semantici che ogni vocabolo porta con sé. Leggere i classici in lingua originale, frequentare gli antichi in un corpo a corpo con le loro parole, significa nutrirsi di “quel cibo che solum è mio”, come scriveva Niccolò Machiavelli negli anni dell’esilio dalla sua Firenze.
Oppure, provocatoriamente, potremmo dire che in verità studiare il greco non serve a niente. Ed è proprio per questo, proprio perché non “serve”, che questo sapere non è “servo” di nessuno: ci rende liberi, almeno nell’ambito della cura e dell’alimentazione della nostra anima, di fare qualcosa che non risponda solo alla logica stritolante del mercato, dell’utilità pratica a tutti i costi, delle “conoscenze, competenze e abilità spendibili nel mondo del lavoro”, che sono ormai diventate l’assillo principe di chi governa e indirizza la scuola e l’università mirando -almeno, è questa l’impressione che si ricava- a formare buoni e diligenti esecutori di compiti e non caratteri forti di conoscenze e allenati al senso critico.
Impariamo dai Greci, maestri di libertà, di parola, di pensiero, di bellezza: impariamo le loro parole e il loro modo di leggere il mondo. Se abbiamo la pazienza di ascoltare la loro voce, avremo sicuramente qualcosa di utile, di bello e di vero che “serve” a noi, alla nostra vita.
01. GRECO. LINGUA, STORIA E CULTURA DI UNA GRANDE CIVILTÀ
I MANUALΙ DEL CORRIERE DELLA SERA, MILANO 2022
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