Grecia moderna, querelle europea
A Parigi, Musée du Louvre, "Paris-Athènes Naissance de la Grèce moderne 1675-1919", a cura di Marina Lambraki Plaka, Anastasia Lazaridou e Jean-Luc Martinez assistito da Débora Guillon. L’arte greca antica e la Francia fra spoliazioni e archeologia; il filo-ellenismo come restituzione identitaria continentale, fino a un’«Aracne»...
PARIGI
EDIZIONE DEL
PUBBLICATO
30.1.2022, 20:00
https://ilmanifesto.it/grecia-moderna-querelle-europea/
"Coppa Apollon", kylix attica a figure rosse su fondo bianco, 460 a.C. circa, Delfi, Museo archeologico
Nikolaos Gysis, “Arachne”, 1884, Atene, Pinacoteca Nazionale
Il primo marzo del 1821, una dea di marmo bianco come la spuma «del greco mar» fece il suo ingresso al Louvre. Strappata con astuzia al contadino che l’aveva rinvenuta l’anno prima nella più occidentale delle isole Cicladi, la scultura era destinata a divenire un’icona del museo costituito alla fine del XVIII secolo per trasformare la Ville Lumière nella nuova Atene. Al 25 marzo del 1821 risalgono invece, secondo la tradizione, gli inizi della Guerra di Liberazione della Grecia. Un perverso filo della Storia lega dunque indissolubilmente il «ratto» della Venere di Milo, espressione sublime dell’arte ellenistica, al desiderio di indipendenza di un popolo oppresso dal passato illustre.
A duecento anni di distanza, il Louvre ha voluto celebrare con una mostra entrambi gli eventi, anche se il trionfalismo ostentato per l’anniversario dell’arrivo in Francia dell’Afrodite priva di braccia appare, se non sconveniente, perlomeno démodé. Nelle intenzioni dei curatori – Marina Lambraki Plaka, Anastasia Lazaridou e Jean-Luc Martinez assistito da Débora Guillon – Paris-Athènes Naissance de la Grèce moderne 1675-1919 (fino al 7 febbraio nella Hall Napoléon) indaga «il posto particolare dell’arte greca antica nelle collezioni del Louvre, oltre alla singolare vocazione della Grecia nella costituzione dell’identità culturale dell’Europa e, specialmente, della Francia». Al contempo, la rassegna mira a delineare i legami culturali, storici e artistici intrattenuti per più di due secoli tra le due nazioni, allo scopo di suscitare una riscoperta della Grecia moderna, la cui conoscenza è ancora oggi offuscata dal fascino esclusivo per l’antichità.
Il percorso, compreso tra le due date di riferimento (1675 e 1919), si snoda attraverso sette macro-sezioni. La vastità dei temi proposti, alcuni dei quali avrebbero potuto rappresentare l’oggetto di singole esposizioni, determina uno sviluppo ineguale e a tratti incompiuto, che solo un visitatore esperto riesce a «ricomporre». L’approccio altamente ambizioso condiziona l’allestimento, che risulta da una parte costretto in spazi inadeguati, dall’altra dispersivo. Ciò si manifesta fin dalla sala d’esordio, in cui la vista della grandiosa tela (260 x 520 cm) che illustra la sosta del marchese di Nointel – ambasciatore di Luigi XIV presso la Sublime Porta – ad Atene nel 1675, è ostacolata da una serie di stele e iscrizioni funerarie antiche, raccolte dal diplomatico nel suo viaggio verso Costantinopoli e disposte qui come in una necropoli.
L’opera, la cui paternità è discussa sebbene i curatori indichino come possibile autore Jacques Carrey, restituisce l’ultima immagine dell’Acropoli prima dell’esplosione parziale del Partenone causata nel 1687 da un colpo di mortaio veneziano. Alle pendici della Rocca si staglia Atene, allora modesto villaggio di una provincia dell’Impero ottomano. Il fastoso quadro, che torna in Francia per la prima volta dal 1974 – quando il Museo della città di Atene – Fondazione Vouros Eutaxias, dove era stato inviato da Chartres per un’esposizione, lo trattenne (la Storia, a volte, ha i suoi rovesci) –, avrebbe meritato di essere osservato da una miglior prospettiva, in attesa che le negoziazioni tra due paesi «amici» ne stabiliscano la definitiva collocazione.
All’Anonimo di Nointel (in questo caso si ipotizza però la mano del pittore Arnould de Vuez) è riferita anche una serie, preziosissima, di schizzi dei frontoni e delle metope del Partenone, senza dubbio tra gli oggetti più ammirabili della rassegna, suscettibili di commuovere i detrattori di Lord Elgin. Ad essi fanno eco alcuni calchi in gesso di elementi del fregio dello stesso Partenone, effettuati durante il soggiorno ad Atene, tra il 1784 e il 1791, del conte di Choiseul-Gouffier. L’ambasciatore nominato da Luigi XVI fu accompagnato nel suo primo viaggio verso Costantinopoli dal noto archeologo e disegnatore Louis-François-Sébastien Fauvel, che raccolse ai piedi del tempio dedicato ad Atena Parthènos la cosiddetta lastra delle Ergastine (poi acquisita dal Louvre), uno dei tanti frammenti scolpiti sotto la direzione di Fidia sparsi nei musei «universali» d’Europa.
In questa sezione, dal titolo «La Grecia rivelata», s’inserisce anche una panoramica della pittura d’icone, retaggio di un’identità legata al patrimonio bizantino in contatto con il mondo occidentale, specialmente per il tramite di Venezia, tradizione che perdura dalla caduta dell’impero romano d’Oriente nel 1453 fino all’Ottocento. Da segnalare, tra i tanti capolavori in prestito dai musei greci, La dormizione della Vergine (1565-’67) di Domínikos Theotokópoulos detto Il Greco e uno spiazzante quadretto del Settecento attribuito a Stylianos Stavrakis che riproduce con canoni iperrealisti la scena de Il Pesce mostruoso intento a sputare Giona.
Un calco in gesso di David D’Angers, modello originale per la statua in marmo della Giovane greca sulla tomba di Markos Botzaris (1827), introduce un po’ mestamente al segmento che rievoca la Guerra di Liberazione (1821-’33) e l’insorgere in Europa del filellenismo politico e culturale. Mentre quest’ultima ricorrenza è esaltata dalla solenne tela (155 x 213 cm) in cui Théodoros Vryzakis ricorda L’accoglienza di Lord Byron a Missolungi (1861), sulla parete opposta si alternano squarci di combattimenti feroci immortalati dai pittori del Romanticismo, come in Le donne Suliote (1827) di Ary Scheffer.
L’apice tragico è raggiunto con La Grecia sulle rovine di Missolungi (1826), emblematico omaggio di Eugène Delacroix, che in terra ellenica aveva deposto il cuore senza mai posare i piedi. Anche in questo caso, il dipinto è confinato in un angolo e l’accostamento con una sontuosa veste ottomana sporca di sangue, appartenuta allo stesso pittore francese che se ne sarebbe servito come modello per l’opera, non è pienamente valorizzata.
L’identità della Grecia moderna riaffiora nelle successive sezioni lungo un racconto che va dalla nascita del neoclassicismo greco, posteriore all’instaurazione della monarchia bavarese e alla designazione di Atene quale capitale del nuovo stato indipendente, alla genesi del gruppo d’arte avanguardista Techni fondato nel 1917 ad Atene su iniziativa di Niképhoros Lytras. In tale contesto, il ruolo non secondario dell’archeologia francese è narrato, con malcelato sentimento nazionalista, attraverso i grandi scavi di Delo (1873-1913) e di Delfi (1892-1903). Questa parte della rassegna è caratterizzata dalla ridondante presenza di calchi in gesso che riproducono Kouroi, Korai e decorazioni architettoniche. Pochi originali di fulgida bellezza, tra i quali spicca il mosaico con Dioniso su una tigre dalla Casa di Dioniso a Delo (II – I secolo a.C.) e la coppa attica su sfondo bianco con Apollo che compie una libazione (480 a.C. ca.) da Delfi, interrompono un orizzonte monocorde.
Malgrado la pretesa di riunire in una sola mostra temi e oggetti la cui coesistenza diviene frastornante, Paris-Athènes ha il merito di portare a conoscenza di un vasto pubblico – anche quello più colto – pittori formatisi tra Monaco e Parigi e distintisi nei padiglioni delle esposizioni universali della Ville Lumière dalla metà dell’Ottocento agli inizi del Novecento. L’enigmatica Aracne di Nikolaos Gyzis (1884) saprà provocare un nuovo filellenismo, attento più alla grecità autentica che al riflesso della bellezza classica negli ideali di società che in passato non hanno disdegnato di barattare l’attrazione fatale per l’Ellade con la rapina e la distruzione, come sembra denunciare il dolente sguardo della prigioniera seminuda ne Il Bottino (1906) di Théodoros Rallis?
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