ΤΑ ΚΕΛΛΙΑ ΤΗΣ ΤΗΝΟΥ

ΤΑ ΚΕΛΛΙΑ ΤΗΣ ΤΗΝΟΥ
Και στα Κελλιά με χρώματα άσπρα και ήλιο μεθούν

lunedì 12 novembre 2018

Ioannis K. Chassiotis (Professore Emerito dell’Università di Salonicco), I Greci di Napoli e dell’Italia meridionale: organizzazione, ideologia e integrazione (SAIA, Atene, 9 nov. 2018)







Prima di iniziare, consentitemi di ringraziare calorosamente l’Ambasciata d’Italia ad Atene, che in collaborazione con l’ospitale Scuola Archeologica Italiana di Atene ha preso la lodevole iniziativa di organizzare l'evento di questa sera. La scelta di coinvolgermi in qualità di relatore in occasione delle celebrazioni per il mezzo millennio di storia della comunità ellenica di Napoli a partire dalla sua simbolica costituzione è per me motivo di particolare onore. Apprezzo anche che questa sera si promuova la conoscenza del percorso nella storia di un focolaio ellenico della penisola italiana non particolarmente conosciuto (rispetto, ad esempio, ai casi analoghi di Venezia, Trieste e Livorno). Questa promozione deve molto al collega Ghiannis Korinthios, il vero storico contemporaneo della comunità ellenica di Napoli. Pongo l’accento sul «contemporaneo», poiché il mio impegno rispetto al tema oggetto di discussione è in un certo qual modo «datato»: ho visitato Napoli per la prima volta 55 anni fa, nell’estate del 1963, quando mi fu necessario lavorare alla mia tesi di dottorato, appoggiandomi per un certo periodo di tempo alla Biblioteca Nazionale di Napoli. Fu allora che ebbi modo di visitare la storica chiesa dei Santi Pietro e Paolo e di vedere quanto si conservava dell’archivio della comunità. Sono trascorsi molti anni da allora e ho scritto un buon numero di contributi sui volti e sugli eventi di Napoli, ma nel frattempo la lunga storia di questa comunità ellenica è divenuta oggetto di studio da parte di più giovani ricercatori. Studiosi greci e italiani, tra i quali si distingue Ghiannis Korinthios, autore di una aggiornata monografia in lingua italiana e ormai stabilmente residente a Napoli e non solo di passaggio dalla città, come me.  Stimolato dunque da tale densità di documentazione (in modo particolare sul tardo XIX e sul XX secolo grazie alle ricerche di Korinthios), questa sera proverò a presentare, nella maniera più sintetica possibile, le principali fasi della plurisecolare storia di questo relativamente piccolo focolaio della Diaspora ellenica, concentrandomi sulla sua organizzazione e sulla sua evoluzione demografica, ma anche sul ruolo (rilevante a dispetto delle sue dimensioni) che esso ha giocato nell’ambito del movimento nazionale neoellenico, senza mancare naturalmente di fare riferimento alle relazioni dei suoi membri con l’ambiente italiano.
La presenza ellenica a Napoli e più in generale nell’Italia meridionale ha certamente radici antichissime: dal periodo arcaico con la fondazione dell’insediamento di Partenope e, successivamente, della città di Neapolis nell’area dell’attuale capoluogo campano, per arrivare ai cinque secoli di incorporazione nella rete territoriale dell’Impero di Bisanzio. 
Quest’ultimo è un dato da tener presente, al fine di comprendere anche la diversa provenienza dell’elemento greco del Mezzogiorno d’Italia, dove ancora oggi possiamo parlare di una davvero peculiare –almeno sotto il profilo culturale– stratificazione anche del potenziale umano nel microcosmo della comunità ellenica. Al sostrato costituito dagli ellenofoni dei movimenti “coloniali” antichi si aggiunsero nuovi migranti del periodo bizantino, ai quali si sovrapposero, alcuni secoli dopo (dalla metà del XV secolo in poi), i fuggiaschi e i rifugiati provenienti dall’Oriente conquistato dai Turchi, sulle cui comunità si innestarono in seguito i figli della Diaspora ellenica contemporanea. È necessario chiarire, tuttavia, che, contrariamente a quanto spesso percepito in Grecia, tale stratificazione etnica, sociale e culturale del Meridione d’Italia costituisce ancora oggi una realtà viva (per quanto certamente indebolita) a livello linguistico (per la gioia dei glottologi), ma anche sul piano cultuale (croce e delizia degli storici delle religioni). E, come se non bastasse, a questo quadro composito dal tardo Medio Evo e almeno fino al XVII secolo si aggiunse un ulteriore elemento: quello del bilinguismo (greco e arvanitico/arbëresh) di una parte consistente degli emigranti correligionari, che dai Balcani meridionali caduti in mano turca fuggirono verso la penisola italiana alla disperata ricerca di sicurezza e di migliori condizioni di vita presso altre nazioni cristiane. Da questo fenomeno (che può affascinare gli antropologi, ma che potrebbe toccare profondamente anche i nazionalisti) credo che sia dipeso in larga misura anche il livellamento etnico dell’elemento greco ortodosso dell’Italia meridionale: in un periodo, durante il quale l’identità nazionale era ancora fluida, furono integrate nello stesso raggruppamento etnico popolazioni con tradizioni etniche, religiose e culturali completamente divergenti le une dalle altre, sia che queste provenissero dall’Albania meridionale o dall’Epiro e dal Peloponneso o ancora dall’Eptaneso, da Creta e da Cipro.
Lasciando da parte aspetti così specifici (che potrebbero confondere eccessivamente quanti non abbiano particolare confidenza con la storica polisemia dei popoli del Mediterraneo), passiamo ora alla Storia: il periodo più recente della presenza ellenica a Napoli e nel suo entroterra ha inizio con l’insediamento sporadico di Greci in fuga (soprattutto militari e aristocratici) poco prima e subito dopo la Caduta di Costantinopoli (1453). Già a partire dal 1460 ad alcuni di essi era stato concesso l’usufrutto di baronie, villaggi, abitati o fortezze: a Manuel Palaiologos a San Pietro in Galatina, a Pavlos, Gheorghios e Andronikos  Rallis a Taranto, a Ioannis Rallis a Troia e a Thomas Asanis Palaiologos in Calabria.  Pochi anni dopo il re Ferdinando I trasferì in Puglia dal Peloponneso per la prima volta un corpo scelto, divenuto noto nella storia militare come milizia degli «stradioti», i quali non solo rappresentarono il primo nucleo della comunità greco-ortodossa di Napoli, ma le conferirono sin dalle origini specifiche caratteristiche sociali. Nel 1518 Thomas Asanis Palaiologos, figura di spicco ormai della società napoletana («tenuto sempre fra primi del Regno», secondo l’annalista del XVII secolo Carlo de Lellis), edificò la prima piccola chiesa ortodossa, promuovendo così l’«inaugurazione ufficiale» della storia moderna della comunità. La difesa, tuttavia, nel 1526 dei titoli di proprietà dei suoi parenti sulla chiesa fu all’origine, come vedremo, di non poche peripezie per la comunità. Ad ogni modo quella piccola cappella (ristrutturata e più volte ricostruita dalle fondamenta negli anni successivi come vero e proprio tempio degli Apostoli Pietro e Paolo) sarebbe divenuta la prima chiesa greco-ortodossa nella storia della Diaspora neoellenica (i lavori per la costruzione dell’importante chiesa di Aghios Gheorghios a Venezia ebbero inizio dieci anni più tardi e furono portati a termine nel 1573).  
I movimenti migratori collettivi dei Greci verso Napoli continuarono nel tempo a prescindere dai cambiamenti ai vertici di quel territorio, sotto dominio straniero per secoli fino al 1861 con l’annessione al Regno d’Italia. Vorrei ricordare che il «Reame» (termine con il quale fu comunemente appellato attraverso i secoli il Regno di Napoli) fu conquistato in successione dai Francesi, dagli Aragonesi, dagli Spagnoli (per oltre tre secoli), dagli Austriaci e nuovamente dai Francesi, passando sotto lo scettro di diverse case reali: quelle degli Anjou/d’Angiò, dei Valois, dei Trastámara, degli Asburgo, dei Borbone,  dei dominatori “di nuovo conio” napoleonici e dei Savoia. Il frequente cambio del regime dominante, fenomeno in buona parte responsabile anche delle divergenti condizioni sociali che regnarono per secoli nel Meridione d’Italia, non favorì lo sviluppo economico e culturale dell’elemento greco della regione. In particolare nelle campagne l’evoluzione sociale della maggior parte dei fuggitivi scampati all’avanzata dei Turchi cadde nella morsa del regime feudale dei baroni locali, risultando costretta ad un’integrazione parziale (come d’altra parte il resto delle popolazioni italiane) attraverso l’impiego nel settore agricolo (in condizioni penose) o mediante arruolamento nell’esercito (con migliori prospettive). E solo nei centri urbani, particolarmente a Napoli, si notano (già a partire dall’inizio del XVI secolo) esempi di una certa attività economica e culturale. 
Ma il grande stravolgimento nella storia della comunità ebbe luogo negli anni 1533-1534 con il trasferimento in massa, con l’appoggio delle flotte spagnola e genovese, in Italia meridionale e in Sicilia di circa quattromila cittadini di Corone (ma vi furono anche migranti di Methone, Patrasso e di altre regioni del Peloponneso). Si deve ricordare al riguardo che questa migrazione divenne inevitabile, dal momento in cui l’imperatore Carlo V, che aveva conquistato Corone nel 1532, decise di abbandonare la città, aprendo la strada al ritorno degli Ottomani. La successiva ondata migratoria si registrò quarant’anni più tardi, in seguito al fallimento dei moti rivoluzionari nella penisola ellenica, fomentati dalle promesse dei vertici della Lega Sacra, poco prima e dopo la battaglia navale di Lepanto nel mese di ottobre del 1571. Inoltre, l’occupazione di Cipro da parte degli Ottomani nello stesso periodo (1570-1571) obbligò una parte della popolazione dell’isola a fuggire verso l’Italia, a Venezia in particolare, ma anche in minor numero a Napoli e in Sicilia.
L’arrivo dei profughi, soprattutto quelli del 1533-1534 –che venivano genericamente chiamati «Coronei» (Coronenses, Coronei, Coroneos,), indipendentemente dalle specifiche regioni d’origine– fu alla base del rinascimento demografico e sociale dei nuclei di popolazioni elleniche dell’Italia meridionale. Diversamente dai migranti del periodo precedente (che erano generalmente contadini, allevatori e soldati analfabeti), i nuovi arrivati potrebbero essere caratterizzati come “borghesi” (secondo i parametri dell’epoca naturalmente). Tra costoro vi erano commercianti e marinai, colti ecclesiastici e intellettuali, scrivani, poeti etc. Nel corso dei primi dieci anni dal loro arrivo in Italia, inoltre, i «Coronei» furono favoriti dalle autorità spagnole attraverso esenzioni fiscali, sussidi, nomine in via eccezionale nell’esercito e nella marina militare etc. Per questo risultarono socialmente dominanti rispetto ai compatrioti delle migrazioni precedenti. Esiti analoghi, su scala minore, ottennero anche i profughi degli anni seguenti fino alla fine del XVI secolo. Non fu dunque un caso che diverse generazioni di giovani (in particolare “Coronei” di tutte le epoche) promuovessero con tenacia la propria grecità, contribuendo a rafforzare in questo modo a Napoli e nell’entroterra la percezione in chiave etnica moderna del termine «greco» in opposizione al “graecus” di tradizione medievale, impiegato prevalentemente con accezione religioso-dogmatica. Pare che i «Coronei», nel loro tentativo di ottenere valorizzazione sociale in un ambiente semifeudale, presentassero spesso alle autorità locali falsi titoli di nobiltà e più in generale di origine aristocratica; il poeta coroneo Ioannis Acciaioli Protocomis denuncia questa consuetudine nel suo celebre componimento in versi sulle gesta di Carlo V, quando gli consiglia:

καλέσαι μείζονας πόλεων πρεσβυτέρους,
ξεταζομένους ἀκριβῶς, μεθ’ ὅρκον ἀπό μέρους
..........................................................................................,
ἵνα τά γινωσκόμενα πάντα μετ’ ἀληθείας
ἀπαραιτήτως δείξωσιν....
Καί ταῦτα πάντα τάς γραφάς καλῶς ἐξετασθῆναι,
μήποτε ἐκ παραδρομῆς ἄλλος ἀδικηθῆναι.

Questa tendenza ha lasciato un’impronta nelle epigrafi tombali, di cui si è conservata testimonianza (alcune in vecchi annali, altre ancora oggi visibili negli spazi della chiesa della comunità), che celebravano in latino, italiano e, più raramente, in greco antico le imprese e l’origine “aristocratica” dei defunti e delle loro famiglie (le lapidi tombali erano decorate, sin dall’epoca di Thomas Asanis Palaiologos, da stemmi nobiliari, scudi gentilizi e altri simili emblemi).  Ma naturalmente la “grecità” della comunità si rinnovava costantemente grazie alle nuove ondate di esuli e profughi, che sopraggiungevano da Creta e dal Mani nel corso del XVII secolo, e dall’Epiro, dall’Eptaneso e da altre regioni del mondo greco (persino dall’Asia Minore) tra il XVIII secolo e gli inizi del XIX. 
Al rafforzamento del carattere ellenico della comunità contribuì anche la sua stessa organizzazione. A soli due anni dal loro insediamento a Napoli i “Coronei” con l’appoggio delle autorità spagnole (che di costoro necessitavano per l’esercito e per la flotta), ma anche grazie all’assenso della Santa Sede, si assicurarono il permesso a costituire una propria Confraternita greco-ortodossa. Il regime di questa Confraternita fu registrato nel 1561 in uno Statuto speciale, redatto sulla base di una disposizione di Carlo V del 1535 e, come gli stessi ebbero a scrivere, nel rispetto dell’organizzazione comunale che avevano a Corone nel nome del Santo Prodromos. Questo è un dato di importanza eccezionale, se si tiene conto del fatto che tutti i regimi normativi superstiti relativi all’organizzazione comunale in Grecia nei secoli di dominazione turca sono alquanto tardi. Va rilevato, tuttavia, che la maggior parte delle disposizioni dello Statuto del 1561 rappresentava il frutto di un compromesso tra le consuetudini vigenti nella comunità di Corone e gli obblighi normativi in vigore in Italia in merito al funzionamento delle corporazioni religiose, filantropiche e professionali. Ad ogni modo, questo Statuto, con le migliorie successivamente apportate (soprattutto con la sua revisione nel 1593 ad opera di rappresentanti della seconda generazione di «Coronei»), costituirà la base non solo per l’organizzazione collegiale dei Greci di Napoli, ma anche il sostegno legislativo per le numerose battaglie legali che questi dovettero affrontare nei secoli seguenti contro i non pochi contestatori del carattere religioso della comunità (non semplicemente del suo rito greco unitario, ma dell’irremovibile carattere greco-ortodosso); la tutelerà inoltre dalle pretese dei discendenti di Thomas Asanis Palaiologos e di tutti gli altri rivendicatori del suo patrimonio, che, grazie ai lasciti dei suoi membri, aveva iniziato ad essere allettante già intorno alla metà del XVI secolo. Ma la conquista più importante, secondo il mio parere, di questa piccola Confraternita fu il riconoscimento–con decreti delle autorità spagnole e bolle della Santa Sede– della Universitas Graecorum come realtà politica e non semplicemente religiosa ed «etnica», ma «nazionale», sempre ovviamente secondo i parametri dell’epoca. La Confraternita riuscirà a conservare questa identità anche nei secoli successivi, senza mai subire le enormi perdite da cui furono colpite, invece, le più piccole e deboli comunità greco-ortodosse della provincia (dove in un ambiente bilingue prevalse progressivamente l’elemento albanofono su quello ellenofono, molto tempo prima dell’emersione del nazionalismo albanese).  
Quanto detto non significa certamente che il microcosmo della comunità fosse esente da agitazioni; e non intendo solo in ambito ecclesiastico (unitari contro puri ortodossi), poiché discordie vi furono anche tra i vecchi membri e quelli più recenti (che continuavano a giungere tanto delle regioni del mondo greco ancora in mano veneziana quanto da quelle sotto il dominio turco). Alla fine gli antagonismi tra Italo-Greci, Greci-Veneti, Greci-Ottomani e Greci Orientali resero necessaria l’elaborazione di un nuovo Statuto nel 1764, con il quale i nuovi giunti si imposero sui membri di più antico insediamento. Il cambiamento ebbe luogo ancora una volta grazie al sostegno del casato al potere, nel caso specifico dei Borbone, anch’essi bisognosi, come gli Spagnoli del periodo vicereale, del contributo militare dei Greci.  In questo stesso periodo fiorì nel Reame la nuova categoria dei mercenari greci, questa volta per iniziativa di importanti esponenti della comunità: il veterano chimariota Stratis Ghìkas e il commerciante epirota Athanasios Glykìs. Negli anni 1735-1738 prese forma dunque un’unità militare strutturata dapprima come battaglione e successivamente (1754) come Reggimento completo; esso rimase celebre nella storia con il nome di Real Reggimento Macedone e in seguito con quello di Battaglione dei Cacciatori Macedoni. A tal proposito ho premura di precisare che il termine «Macedone» non corrispondeva tanto –ed esclusivamente– alla Macedonia storica, ma ad uno spazio geografico più ampio, che, nella percezione di quei tempi, comprendeva anche l’attuale Albania e parte del Montenegro e della Dalmazia. Proprio il riorganizzatore del Reggimento, il conte cefalonita Gheorghios Chorafas argomentò circa la necessità di arruolare soggetti anche di altre “nazioni”, ricordando la composizione multietnica dell’esercito di Alessandro il Grande, ma anche la parentela religiosa e culturale tra Elleni ed «Illiri». In sostanza, tuttavia, gli «Illiri» (Albanesi e Dalmati) in quel corpo militare scelto furono pochissimi: lo composero infatti in maggioranza Chimarioti, Epiroti, Eptanesi e Greci da diverse regioni dell’Anatolia, come anche da Costantinopoli e Smirne.  
Grazie all’influenza dei veterani del Real Reggimento Macedone la comunità riuscì nuovamente a neutralizzare i pericoli da cui fu minacciata la sua autonomia religiosa ed etnica con la restaurazione nel 1815 del regime assolutistico di Ferdinando I di Borbone nel Regno delle Due Sicilie. Nel frattempo l’emergere dello stato ellenico creò le condizioni per alcuni interventi di Atene, deboli e limitati al cruciale problema delle designazioni dei parroci della chiesa ellenica. L’Unità d’Italia nel 1861 offrirà significative vie d’uscita a numerosi problemi funzionali della comunità. Tuttavia, nonostante la sottoscrizione di accordi interstatali tra Greci e Italiani, la comunità non cesserà di confrontarsi fino alla fine del XIX secolo con il periodico riapparire di contestatori del suo carattere religioso ed etnico  e di rivendicatori del patrimonio della stessa (con il richiamo ad antichi diritti ereditari o con argomentazioni, diverse nel tempo, di dubbia validità storica).
Le peripezie della comunità continuarono anche negli anni seguenti, provocando una costante emorragia finanziaria e forti perdite patrimoniali. L’ultima, ma anche la più dura e annosa prova che la comunità dovette affrontare, si deve all’avvento del regime fascista negli anni venti del secolo scorso e naturalmente alla grande guerra del 1940. A quel tempo un buon numero degli immobili superstiti e dei beni della comunità e della sua chiesa furono oggetto di saccheggio. Tuttavia, nell’immediato periodo postbellico non solo furono recuperati alcuni dei beni sottratti, ma si è sperimentato un rafforzato e del tutto nuovo clima di collaborazione fraterna tra Italiani e Greci Napoletani. Questo risultato è stato raggiunto con il contributo della comunità, dal 1992 ampliata e ridenominata «Comunità ellenica di Napoli e Campania», ma grazie anche alla compartecipazione delle autorità locali. Esempio simbolico di questa nuova realtà è stato il ripristino della secolare storica denominazione della via (e del rione) dei Greci della città (Rua e Vico dei Greci). Nel mese di dicembre del 2009, infatti, il Comune di Napoli ha promosso l’affissione di una lastra commemorativa sul muro esterno della chiesa dei Greci in via San Tommaso d’Aquino riportante la seguente indicazione: «Via San Tommaso d’Aquino già Vico dei Greci». L’organizzazione stessa dell’evento di questa sera e di tutti quelli che lo hanno preceduto nella città partenopea per iniziativa (davvero entusiasta) dell’Italia ufficiale mostra evidentemente che le vecchie ferite –tutto sommato facili a spiegarsi storicamente con le passioni dottrinali e ideologiche del passato– si sono definitivamente rimarginate.
Questa breve relazione sulla composizione e sui successi (nonostante gli ostacoli) della comunità ellenica può forse dare la sensazione che questa dovesse essere una realtà demograficamente cospicua. Questa percezione era diffusa nella stessa Napoli agli inizi del XVII secolo. In uno degli annali dell’epoca, Il Forastiero del 1634, scritto in forma di dialogo dallo storico Giulio Cesare Capaccio, si offre la seguente immagine esagerata dei Greci della città:

Forastiero. Mi han riferito che in Napoli siano infiníti habitatori greci.
Cittadino. Han riferito quel ch’è. E vi dovea commemorar prima la Rua di Greci.
Tuttavia, la stima relativa agli «infiniti» Greci di Napoli (città tra le più popolose d’Europa a quei tempi con circa duecentomila abitanti) è a dir poco esagerata. Non possediamo al riguardo dati sufficienti; partendo tuttavia dai membri di spicco della comunità, i cui nomi si conservano nei rendiconti disponibili, possiamo calcolare il numero degli iscritti (vale a dire dei membri attivi) tra il tardo XVI e i primi anni del XVII secolo intorno alle  30-40 persone (le quali naturalmente, rappresentando un numero corrispondente di famiglie, consentono di restituire un totale di 130-140 persone). Questi numeri restano costanti, con piccole oscillazioni, fino alla metà del XVIII secolo, quando con gli arruolamenti del Real Reggimento Macedone vengono triplicati con il raggiungimento delle 400 unità, per poi crollare nuovamente alla fine del secolo quando si registrano 200 iscritti. Con la creazione dello stato ellenico (che assorbì, come ho già detto, gran parte dei connazionali residenti all'estero), il numero dei membri della comunità tornò ai livelli originari (intorno alle 130-140 anime; 100 alla fine del XIX secolo). A questi numeri, tuttavia, bisogna sicuramente aggiungere quelli relativi ai connazionali non calcolabili, membri inattivi della comunità e Greci di passaggio. Non si può trascurare il fatto che fino agli inizi del XVIII secolo Napoli ha rappresentato la prima destinazione e il punto di partenza per quanti fossero diretti verso la Spagna e le sue fondazioni europee e transoceaniche. La città costituiva, inoltre, la tappa intermedia per i profughi e gli emigranti dell’Oriente ellenico alla ricerca di nuove patrie in diverse regioni: Italia meridionale, Toscana, Corsica, Sardegna e Isole Baleari. Tutti costoro contribuirono a rendere il Vico dei Greci un rumoreggiante alveare umano. A seguito della nascita dello stato ellenico cominciarono a transitare dal porto di Napoli e da quello della vicina Castellamare di Stabia migliaia di marinai greci, i quali non si integravano di certo nella comunità, indipendentemente dal fatto che per brevi periodi molti di loro venissero ospitati presso alloggi ad essa pertinenti.
Quella napoletana non ha mai raggiunto le impressionanti dimensioni delle analoghe comunità di Venezia, successivamente di Trieste e agli inizi del XIX secolo di Vienna, nelle quali i Greci si contarono in determinati periodi in alcune migliaia. Il bisogno dei Greci di Napoli, inoltre, di proteggere la propria identità religiosa ed etnica, imponeva di tracciare un solco rispetto agli ambienti circostanti (italiano-cattolico, italo-greco unitario e italo-albanese ortodosso). Non mancarono certo i matrimoni misti, causa di agitazioni nella comunità, poiché stimolavano gli appetiti dei rivendicatori del patrimonio della stessa. Non mancarono membri di rilievo della comunità che vollero garantirsi un’ascesa sociale –ancora mediante matrimoni misti– seguendo strategie di segno opposto, integrandosi a tal punto nell’élite dell’Italia meridionale da comportare una piena italianizzazione e più in generale provocando la loro alienazione culturale e religiosa. Si deve comunque segnalare che questo processo (inevitabile dopo tre generazioni) non fu ad ogni modo accompagnato da un rifiuto della grecità: abbiamo esempi di famiglie greche di Napoli (con origini da Corone, da Monemvasia e dall’Eptaneso), che, pur essendo riuscite a imparentarsi con importanti dinastie del Meridione d’Italia, non cessarono di promuovere orgogliosamente per diverse generazioni la loro origine ellenica (spesso richiamandosi nelle loro genealogie a discutibili titoli nobiliari bizantini).
Le scelte sociali e professionali dei membri della comunità furono influenzate da diverse motivazioni storiche. Pur non mancando coloro i quali si impegnarono nell’artigianato e nel commercio, la maggior parte di loro si rivolse, come abbiamo già detto più volte, alla carriera militare. Abbiamo visto inoltre che il primo nucleo della comunità aveva preso forma nel XV secolo con l’arrivo degli stradioti, ai quali in qualche modo successero durante i secoli XVIII e XIX gli uomini del Real Reggimento Macedone e del successivo Battaglione dei Cacciatori Macedoni. Questo peculiare fenomeno, riscontrabile fino all’esplosione della Rivoluzione Ellenica, si deve al fatto che il regno di Napoli (a prescindere dai cambiamenti periodici delle dinastie dominanti) si era trasformato, assumendo per secoli (fino alla metà del XVIII secolo) il ruolo di baluardo avanzato contro l’espansione ottomana nel Mediterraneo centrale e orientale. Era anche la base stabile per quasi tutte le operazioni militari marittime degli Spagnoli, dei Fiorentini e dei Cavalieri di Malta nel Levante. E anche per questo motivo i Greci del Reame legarono il loro servizio da mercenari alle loro aspettative di restaurazione nazionale, ritenendo la loro partecipazione ad azioni antiturche un dovere comune rispetto all’Ellade ridotta in schiavitù e rispetto a Napoli, loro seconda patria. Non è un caso che nel Vico dei Greci si siano tessute le trame della maggior parte dei movimenti rivoluzionari, realmente portati a segno o semplicemente progettati tra i secoli XVI e XVII nella penisola ellenica. Solo a titolo indicativo basterà fare riferimento alla duplice insurrezione del metropolita di Larissa Dionigi il Filosofo in Tessaglia occidentale (1601) e in Epiro (1611) (il più importante episodio di questo genere che si registri su suolo ellenico dalla Caduta di Costantinopoli alle imprese militari di Orlof del 1768), che fu organizzata esclusivamente da elementi di rilievo della comunità ellenica di Napoli.
Da questo punto di vista la comunità, indipendentemente dalle dimensioni ridotte della stessa, ha giocato un ruolo notevole nel risveglio dello spirito della Resistenza dei Greci nel periodo prerivoluzionario. Ancora dopo l’avvicinamento dei Borbone di Napoli agli Ottomani nel 1740, i Greci del Reame non smisero di ravvivare i loro inestinguibili sogni di liberazione. Particolarmente celebri i casi di Chorafas, fondatore del Reggimento Macedone, e di Antonios Gkikas, figlio di Stratis, comandante di questo corpo militare: e se il primo si limitò ad appelli (alcuni anche di carattere letterario) alla Russia per la liberazione della Grecia, il secondo, Antonios Gkikas, passerà all’azione, una volta entrato al servizio dei Russi prima e dopo i loro interventi militari nei territori ellenici negli anni 1768-1770. Lo stesso discorso vale anche per decine di altri membri, più o meno noti, delle milizie elleniche di Napoli alla fine del XVIII secolo e nel corso del primo decennio del XIX.
I vari dominatori di Napoli (Spagnoli, Austriaci e anche gli stessi Francesi rivoluzionari) utilizzarono i Greci mercenari anche per interventi entro i confini del regno: dapprima nella neutralizzazione dei baroni filofrancesi, in seguito contro la sommossa antispagnola di Masaniello nel 1647, nella soppressione delle rivolte popolari contro l’effimera Repubblica Partenopea del 1799 e, infine, nella repressione del brigantaggio nel Meridione d’Italia.  Infine con lo scoppio della Rivoluzione Ellenica nel 1821 la maggior parte dei Greci veterani delle unità militari napoletane menzionate (anche dopo la loro riorganizzazione nel 1817 ad opera del filelleno Richard Church, divenuto poi comandante supremo dei Greci rivoluzionari), si spesero per l’Ellade, realizzando finalmente un sogno condiviso con i propri colleghi greci delle generazioni precedenti: quello di mettere a disposizione la propria esperienza militare e la vita stessa non più al servizio delle potenze straniere, ma per la propria terra d’origine. A costoro fecero appello anche i redattori del piano generale direttivo della Φιλική Εταιρεία, dicendo quanto segue: 
Εἰς Νεάπολιν [...] εὑρισκεται ἕν σῶμα ἑλληνικοῦ στρατοῦ, οί όποῖοι [sic] μέ τό νά ἠξεύρωσι καλῶς τήν τακτικήν, συμφέρει νά εὑρεθῶσιν εἰς τήν Ἑλλάδα κατά ταύτην τήν περίπτωσιν, ὄχι μόνον διά νά συνεργήσουν, ἀλλά καί νά διδάξουν τούς ἡμετέρους τά τακτικά.
L’orientamento militaristico di una buona parte dei membri della comunità di Napoli non impedì alla stessa nel suo insieme di assumere un carattere più “borghese” e rivolto a settori più pacifici. Abbiamo già detto laconicamente del loro impegno nel settore artigianale e protoindustriale e in quello commerciale. Ma più interessante è forse presentare esempi di Greci della città che coltivarono le lettere e le arti. Per circa un secolo e mezzo diversi curati della chiesa di Napoli furono diplomati del Collegio Greco di Roma (e per questo provocavano frizioni all’interno della comunità). Alcuni di essi sono registrati come professori di greco antico presso lo Studio Pubblico di Napoli, altri come membri di Accademie letterarie e artistiche della città. Ma il nome che più di tutti ha brillato nella storia della comunità è certamente quello di Belisario Corenzio, pittore originario di Kyparissia nel Peloponneso. Corenzio non lavorò solo in chiese cattoliche romane e in monasteri della provincia napoletana, ma anche nella decorazione pittorica (con uno stile misto bizantineggiante e occidentale) della chiesa dei Greci (partecipando inoltre all’amministrazione della Confraternita). Un secolo più tardi è stato operativo presso la comunità un artista meno noto, il cefalonita intellettuale, poeta e pittore Efstathios Karouzos. A partire dal XIX secolo vissero a Napoli per più o meno lunghi periodi diversi intellettuali e artisti greci, che hanno contribuito a rinnovare, in maniera diversa, il clima culturale di questo piccolo focolaio ellenico. Tra essi si annoverano in alcuni casi membri effettivi della comunità  (come ad es. l’eccellente filologo Konstantinos Traintaphyllis, per un ventennio professore di lingua e letteratura neogreca presso l’Istituto Orientale di Napoli), in altri semplicemente di passaggio (è questo il caso di Iakovos Polylàs, l’editore delle opere di Dionysios Solomos). Menzione speciale si deve fare infine della presenza a Napoli, in qualità di studiosi e collaboratori di celebri musicisti della città partenopea, di artisti provenienti dall'Eptaneso, che trasferirono nel mondo neoellenico la raffinata tradizione musicale occidentale (in particolare il melodramma italiano), dando origine contemporaneamente alla nostra scuola musicale nazionale; mi riferisco a Nikolaos Mantzaros, Spyridon Xyndas e Gheorghios Labelet, per non estendere il discorso ad altri e meno noti compositori, musicisti ed educatori musicali.

Avendo come obiettivo oggi quello di percorrere la lunga storia della piccola, ma dinamica comunità ellenica di Napoli, possiamo approdare ad alcune, molto generali, osservazioni conclusive. Innanzi tutto essa si legò fortemente –forse con maggiore intensità di quanto non sia avvenuto presso altre comunità d’Occidente– con l’ambiente sociale circostante nell’entroterra dell’Italia meridionale e della Sicilia (a prescindere da convergenze e divergenze). Essa ha rappresentato una delle principali vie d’uscita per i Greci in fuga dal Mediterraneo orientale verso occidente. Un elemento particolarmente distintivo è stata la precoce e dinamica partecipazione dei suoi membri al dibattito politico circa il problema dell’Oriente sotto il dominio dei Turchi, non sul piano ideologico (rispetto al quale altre comunità d’Italia giocarono un ruolo più rilevante), ma nell’organizzazione pratica dei movimenti rivoluzionari. Tutti questi temi sono stati oggetto di ricerca. Permangono, tuttavia, diversi desiderata, come ad. es. la questione del posto occupato dalla comunità nella storia culturale di Napoli, tanto nella prima età moderna (maturo XVII secolo), quanto –soprattutto– nel periodo compreso tra la fine del XVIII e il XIX secolo o ancora nel XX. Inoltre, proprio a partire dalla tarda età moderna il peso delle altre, un tempo gloriose, comunità elleniche d’Italia (ad es. quella di Venezia) aveva iniziato a subire una contrazione. Al contrario a Napoli si possono individuare diversi elementi, soprattutto in ambito culturale, indicativi di una fase di particolare fioritura meritevole di attenzione. Questi dati sono stati scrupolosamente registrati da Ghiannis Korinthios, che ha aperto la strada ad un nuovo corso di studi e alla futura valorizzazione degli stessi. L’enorme quantità di materiale d’archivio, che si conserva a Napoli, come presso altri archivi d’Italia e del resto d’Europa, resta in attesa dello scavo degli studiosi contemporanei. Ed è di buon auspicio il fatto che da diversi anni ormai, ai Greci conoscitori della lingua italiana si aggiungano in numero sempre crescente gli storici italiani conoscitori della lingua greca, tra i quali molti hanno già offerto il frutto delle proprie ricerche. Da costoro dipende ormai l’onere della gestione delle numerose pendenze nella ricerca storiografica, ma anche l’ampliamento dei ponti scientifici tra due popoli fratelli –o, se preferite, cugini– del Mediterraneo.  In ultima analisi in questo modo si renderà giustizia ai «Coronei» («ὧν καί τήν μνήμην ἐπιτελοῦμεν»), che riuscirono a fondare nello spazio dell’antica e gloriosa Megale Hellas la loro modesta e più recente Mikrì Hellas, che, tuttavia, ha già superato il suo mezzo millennio di storia.
Σας ευχαριστώ.



Ο καθ. ΙΩΑΝΝΗΣ ΧΑΣΙΩΤΗΣ, κύριος ομιλητής της εκδήλωσης
















Traduzione dal greco: 
Carmelo Di Nicuolo


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